o l'altro corregga la 
scappata della lingua. Hai capito? 
--Presto capito, e presto fatto con l'aiuto del mio santo protettore. 
--Dunque c'era Ugo. E disse? 
--Nessuno dei cavalieri parlò. 
--IL bando fu pubblicato a tutte le castella? 
--Messere sì. 
--Senti, Guidello, tienti bene nutrito e conserva buon petto. Orvìa--e 
messere prese una borsa dal tavolaccio:--La gola è asciutta: a voi. 
--Ecco qui--disse l'araldo e cavò di petto alcune monete di rame, le 
noverò, poi, dandone una metà al chierico che gli stava serrato alle 
coste, cupido come un bracco alla ferma:--Che mi rimane? 
--Ma c'è il padrone che pensa. Vanne, Guidello, chiedi a Filippuccio, e 
quegli ti condurrà dove c'è mensa rizzata. 
Si mosse con reverenza l'araldo, e si mosse anche il chierico. 
--Ingo,--lo trattenne il cavaliero:--restate, chè ho da parlarvi. 
Ingo, già stizzito per la paura, per il poco guadagno e per la tolta 
speranza di una cena, fece visino sorridente, e piegò la persona a 
un--V'obbedisco. 
--Ho d'uopo--disse il messere:--della vostra saggezza e del vostro buon 
volere. 
--Se voi comandate così, mi compiaccio assai: la saggezza a pro di 
ricco e nobilissimo conte, come voi, deve sempre essere accompagnata 
dal buon volere di saperla così ben usata. 
--L'astrologo m'è diventato un fanciullo.... Nella vostra camera voi 
avete certi rotoli antichissimi di pergamene.
--Signore sì, certe disquisizioni dei latini. 
--L'astrologo non sa suggerirmi.... Erano valenti questi latini? 
--Oh pensate, messere, sono i maestri del mondo. 
--Sta bene. Che cosa insegnarono? 
--Messere, di tutto. 
--E a petto di quello che dicono questi maestri nessuno sa schermirsi? 
--Ai nostri tempi, no certo. Nell'abbadìa io sentii dire da frate Giocondo 
che noi siamo più rozzi degli ungari, e so che cinque frati altro non 
facevano tutto l'anno che copiare certi e certi codici sbiaditi di Cicerone 
che valevano un archivio e mezzo: e tanto mi raccontò l'abbate, che 
appresi l'arte della lettura per desiderio, poi quella della scrittura, ed ora 
vi dico che mi lagno d'avere soli due occhi che bastano a leggere poco, 
e vorrei che ci fosse un inchiostro d'oro fino stemperato per potere con 
quello scrivere certe sentenze antiche, le quali sono la magnificenza 
istessa di Salomone. 
--L'astrologo non sa suggerirmi.... Ingo, dite, e i greci? 
--I greci furono popolo artistico e coltissimo. 
--Avete rotoli vecchi di quelli? 
--Messere, se vorrei averne! Ci fu Platone che scrisse degli Dei, come 
se li vedesse, ci fu Aristotele che disse tanto dell'anima, quanto un 
dottore di santa madre chiesa, ci fu Socrate che morì, bevendo il veleno 
con tanta filosofia.... 
--E non sapeva farlo bere agli altri?--interruppe Adalberto, così 
mostrando la sua intenzione. 
--Socrate era filosofo stupendo. Se vorrei averne di quei rotoli! Ho solo 
un discorso che è un pozzo di sapienza! Se lo vedeste! Un manoscritto 
che mi costò un anno di lavoro nella cella, ma riuscì così nitido, così 
corretto, a facciuole di santi e di beati, che sono cose da mettere su un 
altare, se quel sommo non fosse pagano, e l'anima dannata, com'è! 
--Non sapevano farlo bere agli altri!--risolse Adalberto:--Ingo, io vorrei 
un greco, un latino, o un dimonio che fosse diverso da quel vostro 
filosofo stupendo. 
--Ho capito. 
--L'astrologo è diventato un fanciullo. E perchè non vi abbiate a pentire, 
Ingo, d'avere due soli occhi, vi do di che allegrarli a sazietà: queste le 
sono monete d'oro: ma l'oro non stemperatelo in inchiostri per onorare 
di fregi le chiacchere disutili dei morti, tenetelo per, voi che siete vivo.
Avete capito? 
--Ho capito! 
 
CAPITOLO II. 
Pel giorno di Pasqua di Resurrezíone, nella chiesa del castello 
d'Adalberto, diceva la messa un frate, e ad ascoltarla vi era il signore su 
un seggio, a destra dell'altare maggiore: a sinistra cinque cavalieri, in 
piedi, con più di cinque paggi in seconda linea, e di questi chi recava 
lancia, chi vessillo, chi coppa, e via, a seconda dell'omaggio che 
doveva rendere il proprio padrone. Messer Adalberto, perchè in 
quell'ora si gloriasse di tutta la sua dignità, vestiva una maglia lucente, 
a maniche, cappuccio e falda assai lunga, portava strisce di cuoio 
rinforzate da piastrelle di acciaio intorno alle gambe a stringergli i 
panni ruvidissimi e attorcigliati, scarpe acute pure di maglia, e speroni 
d'oro da combattimento. La spada a croce, col cingolo d'arme, e un 
cerchio comitale di ferro, gli erano accosto su un tavolaccio di faggio, 
sul quale anche si vedevano certe collane disusate, gli emblemi della 
perfetta cavallerìa degli avi, da Brunone suo a Sannuto, l'antichissimo 
fondatore dalla stirpe dei lupi d'Auriate. I vassalli comparivano quali in 
quel dì dovevano, cioè spogli di tutte le insegne che accennassero vita 
guerresca disgiunta dalla obbedienza al signore: avevano tonache 
succinte, corte, aderenti alle braccia e al busto, calze strette in gamba, 
di colore oscuro, usatti neri, puntuti, senza calcagni e senza lacciuoli. 
Finita la messa, Adalberto si alzò, e fece cenno    
    
		
	
	
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