L'imagine
precisa e vivace, la frase spirante un'emozione profondamente sentita, il 
concetto espresso con facile eleganza, mai nessun eccesso di parola, 
nessuno sfoggio di inutile virtuosità, quasi un pudico aborrimento 
d'ogni lezioso artifizio, tutto ciò infonde nelle pagine del De Marchi 
quel fascino che ha la bellezza quando ci si affaccia nella sua semplice 
e genuina realtà. 
Emilio De Marchi, mi piace ripeterlo perchè è il più grande fra i titoli 
d'onore del nostro poeta, ha sempre accompagnato all'arte l'ispirazione 
morale e fu guidato, in tutte le sue opere, da un concetto educativo. Egli 
sentiva altamente la missione dello scrittore, e voleva che da ogni suo 
libro venisse un insegnamento che, purificando, ravvivasse i cuori. 
Quando egli parlava ai giovani, la sua parola aveva un accento 
paternamente affettuoso. Il maestro diventava un amico che aveva il 
segreto di toccar le corde più intime del cuore. Ma l'idea morale regge 
ed anima non solo i suoi libri educativi, bensì tutta l'opera sua. 
Non si chiude nessun suo romanzo senza sentirsi migliori, perchè più 
inclinati all'indulgenza, alla pietà per le umane debolezze, più sensibili 
alla simpatia per la sventura, più aperti all'influenza d'ogni grande e 
generoso ideale.-- 
Il fare un libro è meno che niente Se il libro fatto non rifà la gente 
diceva il Giusti. A questa convinzione del poeta toscano, che era anche 
la sua, Emilio De Marchi è rimasto fedele in tutte le manifestazioni del 
suo ingegno. Artista squisito, scrittore altamente civile e morale egli 
lascia una traccia duratura. Il suo spirito rimane nelle figure viventi di 
cui ha popolato il mondo della fantasia e del romanzo, rimane nei 
preziosi insegnamenti da lui sparsi a piene mani lungo il cammino, ahi 
troppo presto troncato, della sua laboriosa esistenza. 
GAETANO NEGRI. 
 
PARTE PRIMA.
I. 
Due vecchi amici. 
Cinque minuti prima dell'arrivo del battello, Beniamino Cresti era già 
col suo inseparabile ombrello chiuso, che gli serviva di bastone, allo 
sbarco di Tremezzo in attesa di Massimo Bagliani. Per la circostanza il 
solitario misantropo del Pioppino aveva indossato un vestito d'un grigio 
chiaro tutto eguale, che insieme al cappello chiaro di paglia faceva 
comparire ancor più scura la carnagione del volto e delle mani d'un 
color nero di terra lavorata. 
Da qualche tempo i pochi amici canzonatori notavano che il solitario 
ortolano del Pioppino faceva degli sforzi straordinari per essere bello 
ed elegante. Ezio Bagliani, che tra i burloni era forse il più feroce, 
voleva vedere in certe scarpe alla polacca che il Cresti portava con 
ostentazione, una specie di dichiarazione per la bella sua cuginetta che 
abitava al Castelletto. Altri nelle doppie suole e nei talloni alti di quelle 
scarpe volevan vedere lo sforzo d'un uomo corto di gambe per 
sollevarsi di qualche centimetro sul livello normale del lago. Cresti 
lasciava dire e si limitava a sogghignare di quel sorriso muto, che gli 
irritava le mandibole sporgenti senza arrivare a muoverle: o digrignava 
i denti o si lasciava trascinare a pungere il suo tormentatore col puntale 
dell'ombrello eternamente chiuso. In fondo sentiva che tutti gli volevan 
bene e che in un momento grave sapevan far conto dell'ortolano del 
Pioppino. Ezio Bagliani, per esempio, il più dissipato di tutti, aveva più 
d'una volta ricorso all'aiuto segreto di Beniamino Cresti, quando nelle 
sue strettezze di studente, non osava affrontare la faccia dura di papà: e 
non sempre, pare, aveva restituito con precisione. Maggiore di lui una 
buona dozzina d'anni, il Cresti si permetteva di considerare l'allegro 
giovinotto quasi come un suo nipote, gli dava spesso consigli brevi, 
espliciti, opportuni, che non andavano sempre perduti, specialmente 
quando il giovane si gloriava della sua compagnia del caffè Storchi e 
del Ravellino. La vita dissipata di Ezio, i suoi rapporti costosi con la 
famosa Liana non erano un mistero per Beniamino Cresti, che 
deplorava spesso sinceramente che un giovine di così bell'ingegno, 
ricco, simpaticissimo, perdesse il suo tempo coi Lulù e coi decadenti
del Circolo dell'Asse di cuore, una combriccola di eleganti malviventi. 
A Massimo Bagliani, zio di Ezio, oltre a un lontano rapporto di 
parentela lo legava un'antica amicizia fatta a Torino, quando l'uno 
studiava all'Accademia militare e lui attendeva agli studi di legge. Per 
quanto lontani d'indole e di studi, o forse appunto per questo, la loro 
buona amicizia era andata crescendo col tempo e colla distanza, che è, 
come vuole il proverbio, il vento che fa crescere la fiamma. Le 
peripezie amorose di Massimo Bagliani l'avevano commosso: 
l'ingiustizia di cui era stato vittima aveva trovato nella naturale 
misantropia dell'amico Cresti un terreno preparato apposta per 
germogliare. 
Già poco inclinato a credere nella bontà degli uomini (e cogli uomini, 
come quel predicatore, intendeva anche le donne), il caso di Massimo 
ribadì nel cuore di Beniamino che un uomo è lupo all'altro e che non si 
è mai tanto sicuri come quando si è soli. Per questo    
    
		
	
	
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