si era confinato in 
quel suo Pioppino, lassù, a coltivare cavoli e rose. Finiti gli studi legali 
avrebbe ben potuto percorrere una buona carriera negli uffici erariali, 
perché non mancava di una certa disposizione agli studi economici, 
specialmente nella statistica; ma il nostro Cresti non potè mai conciliare 
l'ingegno col temperamento. Mentre l'uno avrebbe voluto andar diritto 
allo scopo come una palla da bigliardo sotto i colpi di un buon 
giocatore, l'altro, l'animale restío e instabile, s'impuntava per ogni 
ombra, per ogni frasca. Sdegnando di essere un mediocre, sdegnando le 
arti di riuscire, sdegnando gl'inchini, sentendosi troppo migliore di 
cento altri, che fanno fortuna, per rassegnarsi a far come loro, il 
misantropo del Pioppino si era ridotto a vivere della sua rendita e a 
rinchiudersi nel guscio come una lumaca. Suo padre, morendo, gli 
aveva lasciato tanto da vivere bene, col reddito d'un grosso fondo sul 
lodigiano, una casa a Como, e un pezzo di montagna sul lago, dove si 
ritirò in seguito al suo primo disinganno d'amore, e donde non si 
moveva quasi mai, tranne le poche volte che scendeva a dare 
un'occhiata alle sue risaie di S. Angelo, o a vedere un carnevale a 
Milano. Ma un cavolo e una rosa del Pioppino valevano per Cresti tutti 
i migliori prodotti della civiltà. Nella rozza compagnia di due zitelle, 
dette da cinquant'anni le ragazze, che erano cresciute e invecchiate con
lui, amando in lui la tradizione di una grossa famiglia ridotta a 
quest'ultimo filo, si trovò sui trentasette anni, cioè quasi vecchio, senza 
avere provato il piacere di esser giovane. Oltre alla poca 
amministrazione della roba sua, non rifiutava qualche servizietto al 
Comune e qualche consiglio gratuito ai vicini possidenti, che amano 
litigare; ma faceva presto capire che preferiva d'esser lasciato in pace. 
L'unica sua visita quasi giornaliera era per le signore del Castelletto, 
dove restava anche volentieri a giocare agli scacchi con Flora, colla 
Flora dai capelli rossi, che l'irritava continuamente con mosse contrarie 
ad ogni regola di giuoco. La signorina leggeva bene l'inglese e Cresti, 
che non conosceva l'inglese, le regalava regolarmente tutti i romanzi 
dell'eterna collezione Tauchnitz, i più bei Christmass illustrati che 
uscissero a Londra: e così tra una partita e l'altra, passava 
mediocremente l'inverno. Coll'aprirsi della bella stagione rifioriva 
coll'orto anche l'ortolano. Intorno alla casa del Pioppino c'era coll'orto 
anche una vigna e tra l'orto e la vigna correvano spalliere delle più belle 
pere, filari delle più belle rose, due specialità in cui il signor Cresti era 
ritenuto insuperabile: tra le pere un esemplare superbo di Martino 
Secco, buono d'inverno, era rinomato su tutto il lago; e tra le rose 
famosa era una varietà di borracine, ora così trascurate, e pur così belle 
nella loro gonnella verdicina e molle e nei colori teneri di carnagione 
umana. 
Un suono di cornetta avvertì il Cresti che il battello era in vista alla 
punta del Barbianello. Massimo Bagliani, rassicurato che la sua 
presenza in Tremezzina non sarebbe stata cagione di conflitti 
diplomatici, aveva scritto segretamente a Cresti che sarebbe venuto il 
giorno tale, l'ora tale, ma non dicesse nulla per il momento a Villa 
Serena, al Castelletto e in altri luoghi, volendo prima abituarsi alla 
respirazione della nuova aria e rientrare a poco a poco nelle antiche 
impressioni con quella prudenza con cui si entra in un'acqua un po' 
troppo fredda. 
Se il Cresti apparteneva alla schiera di coloro che diffidano degli 
uomini, questo signor Massimo, che stava per arrivare, apparteneva a 
quella non meno numerosa di coloro che diffidano di sè stessi, cioè ai 
malati di troppa riflessione.
L'uno era uno scontroso, l'altro un timido, colla differenza che c'è fra 
una capra ostinata capace di cozzare, anche coi corni rotti, contro un 
pilastro, e un coniglio a cui lo scatto d'una trappola fa battere il cuore 
fino alla soffocazione. Il Cresti, rimasto sempre solo, s'era rinforzato 
nella sua selvatichezza, che è come le squamme per gli animali deboli. 
Massimo, in frequenti contatti cogli uomini e colle cose, dopo aver 
viaggiato le quattro vie del mondo e preso parte ai delicati intrighi della 
diplomazia, tornava a casa dopo dodici anni d'assenza, un po' meglio 
dotato di quella esperienza che insegna a compatire negli altri anche sè 
stesso. 
Quando un nuovo suono di cornetta avvisò che il battello stava per 
approdare, il cuore del Cresti si mosse sotto l'impulso di un soave 
sentimento, che gli fece correre la saliva per la bocca. In questi lunghi 
dodici anni, per quanto divisi dagli oceani, i due vecchi amici non 
avevan mai cessato di scriversi, ed eran state lettere lunghe, espansive, 
come sogliono essere quelle delle persone che parlan poco. S'eran 
lasciati giovani, nel fiore della vita, e stavano per rivedersi, non vecchi, 
ma al volgere di quella seconda età, che può dirsi il settembre della vita. 
Le foglie non cadono ancora, ma    
    
		
	
	
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