La rovina | Page 9

Angiolo Silvio Novaro
e sentissi, tra' miei artigli,
viva dibattersi la preda.
La mia coscienza non era già ottenebrata al punto ch'io non potessi
discernere tutto ciò che di abominevole e di vituperevole si nascondeva
sotto una simile azione. Ma io comprendeva altresì con sufficiente
lucidità come qualsiasi tentativo di resistenza da parte delle mie
migliori energie sarebbe inevitabilmente fallito. Un turbine m'aveva
sorpreso ed involto nelle sue spire mugghiando: ed io mi moveva
portato dalla sua rapina con la leggerezza di un fuscello.
Solo assai tempo dopo, ritessendo io nella mente la storia del mio fosco
passato, potei riescire a rendermi ragione del come quel primo fatto e
quelli non meno obbrobriosi che gli tennero dietro, dovessero
necessariamente accadere e succedersi quasi anelli d'una stessa
catena.--La mia adolescenza e la mia prima giovinezza erano state ben
singolari! Eccettuato un vago sentimentale amoretto che, sorto con
l'adolescenza, s'era a stento trascinato fino alle porte della giovinezza
per morirvi d'anemia e di consunzione,--si sarebbe potuto dire che la
donna non era entrata mai nella mia vita. L'unico vero e serio e grande
amore della mia vita era stata l'Arte. L'unica mia ambizione, imprimere
un'orma non cancellabile nella storia della nostra letteratura, e
incoronar di gloria il mio nome. Per quest'unico amore e per quest'unica
ambizione io aveva imparato a vivere, fin da' quindici anni. Tanto mi
ero preso d'essi, tanto mi ero sprofondato in essi, che avevo finito per
allontanarmi e straniarmi dal mondo. A quella fiamma intensa ed
assidua il mio cuore s'era quasi essiccato. La mia parola era diventata
arida ed aspra: ahimè! perfino con mia madre!
Povera e santa mamma!

Che bella e dolorosa vita era stata la sua!--Nel '66, a soli ventidue anni,
aveva perduto il babbo, a Mentana, che adorava. Non le eravam rimasti
che noi due, e non aveva vissuto che per noi. Per poterci mantenere agli
studî aveva fatto mille sacrifici. S'era quasi privata di tutto. Aveva
sùbito smessa la vettura e licenziata la servitù. Aveva lasciato l'antico
palazzo di Genova, strappandosi d'un colpo a' rumori, alle distrazioni
ed a' piaceri cittadineschi; e s'era venuta a rifugiar in quell'angolo
abbandonato e selvaggio, a respirarvi, come entro la cerchia d'un
chiostro, la solitudine ed il silenzio: posando sulle nostre teste infantili
il delicato giglio della sua mano protettrice e amorosa.
Vederla improvvisamente mancare, era stato uno schianto!
Io avevo pianto a lungo, maledicendo l'iniqua crudeltà del destino che
abbatteva così brutalmente un'esistenza innocente come un fiore.
Avevo guardato la vita con occhio torvo e corrucciato: avevo ripensato
alle mie battaglie, alle mie seti, alle mie fedi come a cose vane, sterili,
inutili. Ed avevo anelato il riposo, la pace, l'infinito sonno, il Nulla!
Ma la vita m'aveva subito riafferrato. L'antica passione m'aveva di
nuovo investito. L'Arte m'aveva di nuovo tese le braccia, seducente di
rorida intatta bellezza. Ed io m'era salvato in grembo al mio mondo
chiuso e profondo.
Della cara Estinta non tutto avevo ereditato. Non quel vigile ardente
spirito di amore, di annegazione e di sacrificio che abbracciava in un
vasto amplesso tutte le forme dell'Essere e caratterizzava,
santificandolo, ogni atto della sua vita: ma sì l'inquieto affannoso
anelito verso l'Alto, e la sacra, tenace devozione a un ideale di purezza
e di nobiltà.
Cos'era dunque il brivido che m'arrestava dubitante sulla soglia
dell'infame asilo quando nel cuore della notte come un ladro io lo
cercava, cacciato dalla schifosa febbre de' sensi? Cos'era l'orrore che mi
pervadeva alla vista della livida creatura che senz'amore, senza palpiti,
senza desiderio mi offriva la sua bocca stanca e le sue carni disfatte?
Cos'era quel senso di nausea che mi penetrava fino alle midolle nel
contatto e mi faceva giurare a me stesso, nella rivolta dell'umiliazione,

ch'io non sarei per cadere più mai?
Io aveva, così, affrontato e sostenuto delle fiere pugne:--ma le poche
volte che avevo trionfato, la vittoria era stata sanguinosa!
Da una di tali pugne vittoriose ero appena uscito quando mi toccò il
fatale incontro!

II.
Il viglietto diceva: «Ho paura. Temo che mi vogliate far servire a un
capriccio, per poi gettarmi via come un limone spremuto. Sarebbe una
viltà. Pensateci. Ho sofferto già troppo. Sono una sventurata. Non
cercate di accrescere la mia infelicità. Lasciatemi. Sarà meglio anche
per voi.»
Questo fu l'ultimo soffio veemente per entro le tortuose fiamme
dell'incendio.--Il pensiero che il possesso di lei, così intensamente
agognato, non dipendeva più che da una mia sola parola, mi dominò
tutto d'un colpo, e mi piombò in un tremendo delirio.
Risposi immediatamente ch'era dell'amore sincero e leale e fedele ch'io
le offriva: che avevo bisogno di lei come dell'aria che respiravo, che mi
sentivo legato a lei come alla vita istessa, che mi sarei squarciato il
petto prima di abbandonarla.
L'indomani ella replicava: «Se tentaste d'ingannarmi, Dio vi punirebbe.
Confido nelle vostre parole. Venite. Stasera,
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