La rovina | Page 8

Angiolo Silvio Novaro
a mio fratello durai fatica a comprimere la fontana d'allegrezza
che spicciava su dal mio intimo.
--Qualche novità!--gridò lui raggiante, alludendo ai miei lavori letterarî,
poi che quando componevo solevo aver sul volto quella stess'aria di
letizia esaltata, insolente, provocatrice.
Io mi sciolsi dalla stretta della sua mano con un ghigno ambiguo che
tutto confermava e tutto negava.

Ma non fiatai.--Udivo le parole di lui, che s'era messo a raccontar d'un
suo amico stato ferito in duello il mattino, come un ronzio confuso che
mi frastornava maledettamente, e m'opprimeva e
m'indispettiva.--Quando potei, in un momento di tregua, ripiegarmi a
cacciar, quasi di furto, uno sguardo in fondo alla mia coscienza, non vi
trovai più il tesoro di quella certezza soave, calda, irruente: appena le
vestigia in un pugnello di cenere fredda e in un'ombra di fumo, grigia.
Preso da uno smarrimento mortale, e incapace di rimaner ancora
immobile davanti a lui che seguitava, calmo e roseo, il racconto, mi
levai e uscii sul terrazzo, a passeggiare, sotto il sole, solo.
Ma egli mi raggiunse, e mi si accompagnò, e rappiccò il discorso,
centuplicando l'oppressura.
--Un mal di capo assassino!--diss'io alfine per liberarmi. E gli tesi la
mano, e riparai nella mia camera, e mi buttai sul letto con la testa fra le
mani che mi scoppiava, a rievocare, a considerare, ad architettare.
Mezz'ora dopo, il piano era stabilito.
Addio a Giovanni con un cenno, e giù per il giardino, e giù per lo
stradone,--difilato dal rivenditor di giornali: una vil creatura che pel
meschino utile che da me ritraeva mi professava una grande
riconoscenza.
Simile a un delinquente gli strisciai accanto e gli rivolsi, senza
guardarlo in viso, l'obliqua dimanda che da un'ora mi fremeva sulle
labbra.
Egli ebbe un sorriso che bruciò sulle mie guance come una scudisciata:
un di que' lubrici sorrisi di compiacimento ch'hanno tutti gli esseri
volgari e immondi quando inaspettatamente loro accade di scorgere un
punto di contatto fra la propria bassa natura e quella d'un altro essere
fino allora stimato superiore.
E mi raccontò ch'era una disgraziata maritata quattr'anni fa a un tale
impiegato all'ufficio del Registro, un giovane mezzo matto e mezzo
malato che, dicevano, la picchiava di santa ragione. In capo a tre anni

s'eran divisi: lui se n'era ito fuori: lei se n'era tornata in casa della
madre: una vecchia strega che ai suoi tempi n'aveva fatte di tutti colori
e adesso, dicevano, insegnava il mestiere alla figlia. Dopo la
separazione, lei s'era data a un signore, un banchiere che teneva una
villa fra Oneglia e Porto Maurizio. Di notte era stata vista scendere di
vettura a quel cancello infinite volte: perfino i ciottoli della strada
avevan saputo quella relazione. Ma un bel giorno il banchiere s'era
stancato e l'aveva messa alla porta. E allora lei aveva cercato
d'invescare un ufficiale...
Tanto bastava.
Io segnai, con la mano che mi tremava, sul taccuino il nome che avevo
raccolto dalla bocca di lui; ringraziai, e mi rincamminai verso la villa.
Lassù la sfacciata luce del mezzodì aveva inondato il mio studio.
Accostai le persiane e abbassai le tende perchè anch'essa non fosse
testimone delle torbide impure cose che la mia anima doveva esalare.
Tolsi un foglio, e scrissi:
«Stamane per la strada solitaria lungo il mare mi siete passata dinanzi
rapida e tenebrosa. E il mio cuore s'è messo a battere, indovinando. Vi
ho raggiunta mentre stavate per aprire il cancelletto del vostro giardino,
e vi ho guardata in viso, la prima volta, curva in quell'atto, E voi, con
uno sguardo dei vostri diabolici occhi, mi avete fulminato. E siete
scappata via leggera come un uccello! E improvvisamente siete apparsa
alla finestra, e mi avete fissato, ancora! Cosa avete voi in quei diabolici
occhi? Come cera al sole io mi son sentito struggere, e mi son lasciato
struggere. Poi me ne son venuto via col cuore gonfio d'una certezza
calda, soave, inebbriante. E tutto quest'oggi mi son nutrito di questa
certezza, ho vissuto di questa febbre di fiamma e di abisso. O
bellissima tenebrosa! Perchè non mi gettate la parola che io sospiro
delirando? La parola che mi farà morire, morire di ebbrezza, prima
ch'io possa appressare le labbra alla coppa della felicità? Guardate. Mi
inginocchio a' vostri piedi e vi supplico. Non prolungate, tacendo,
questo supplizio! Scrivete subito, oggi. Ditemi dove, quando, potrò
parlarvi. Poichè ho bisogno di dirvi cose che non posso scrivere, che

incenerirebbero il foglio.»
Io aveva così cercato di velare de' colori attraenti d'una passione
d'amore quel che non era se non un improvviso risveglio, una torbida
rabbiosa e cieca esplosione de' miei appetiti sessuali. Ed avevo gioito in
fondo al mio cuore pensando che il carco di miserie, di tristezze e di
abiezione che accasciava la vittima, me l'avrebbe più presto sospinta
nelle braccia: gioito come se già ghermissi
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