a bere. 
Di questo invito non avevano bisogno alle due tavole laterali, poste 
lungo le pareti. Una di quelle era presieduta da Scortichino, l'oste di 
San Francesco a Ripa, che mangiava per tre dando il buon esempio a 
tutti, e mesceva a destra e a sinistra da bere asciugandosi la fronte col 
tovagliolo; e l'altra dal Simonetti, l'orzarolo di Borgo, che faceva 
sparire nello stomaco, a forma d'otre, i vassoi delle fettuccine. Quasi 
nessuno parlava in quel primo quarto d'ora, ma quando dopo le 
fettuccine ebbero mangiato il fritto e comparvero i tradizionali carciofi 
alla _giudìa_, quando i camerieri ebbero incominciato a portar via le 
bottiglie e sostituirle con altre piene, allora, negli intervalli della musica, 
incominciò un vocìo assordante, incominciarono le grasse risate 
echeggianti sulla terrazza attigua coperta dal pergolato, e dove si era 
riunita tutta la gente di minor conto, tutta la plebe. 
Il principe parlava poco e ascoltava il sor Domenico e l'on. Serminelli, 
tutti e due pratici di elezioni, che gli davano dei consigli. Caruso non
potendo stare accanto al principe si era messo alle costole a Fabio 
Rosati e sottovoce ripetevagli che se il principe sapeva svolgere l'idea 
suggeritagli da lui, era deputato del certo. 
Don Pio, nella cui mente era infatti penetrato il suggerimento del 
Caruso, ascoltava con orecchio distratto i discorsi delle persone che 
aveva a fianco e teneva l'occhio intento sul Rosati e su quel tipo strano 
di uomo grasso e senza energia, che pareva avesse concentrata 
nell'occhio tutta l'attività della mente, e avrebbe voluto, senza 
chiedergli nulla, avere da lui altri suggerimenti. Egli sentiva avvicinarsi 
il momento di parlare e la sola idea che sapeva di dover manifestare era 
infatti quella della stazione in Trastevere, ma era una idea isolata, che 
non sapeva su che basare, nè come svolgere. 
La sua non era una elezione preparata da lunga mano, come egli non 
era preparato alla vita politica. Lo scioglimento della Camera in seguito 
alla caduta del ministero, avvenuto in primavera, aveva rese necessarie 
in maggio le elezioni generali, e un gruppo di elettori, ascoltando il 
suggerimento del Rosati, si era fatto propugnatore del nome di don Pio 
Urbani, principe della Marsiliana, non perchè fosse noto come uomo 
intelligente, nè come buon amministratore, ma solo per contrapporlo a 
un ricco mercante di campagna, il de Petriis, che, per la impopolarità 
acquistatasi nel consiglio comunale, si voleva escluso dal Parlamento 
come rappresentante di un collegio di Roma. 
Del resto, don Pio non aveva altri precedenti che questi. Figlio unico e 
erede di un grande nome e di un grande patrimonio rovinato, era 
rimasto orfano di padre nei primi anni dell'infanzia. Sua madre, mercè 
l'aiuto di un buon amministratore, che si diceva fosse vice-principe di 
nome e di fatto, aveva estinto gran parte delle ipoteche e preparato al 
figlio, che faceva educare nel collegio dei gesuiti a Mondragone, un 
avvenire ricco e senza fastidi. Don Pio, appena uscito di collegio, aveva 
corso la cavallina, e col pretesto di viaggiare, per dar l'ultima mano alla 
sua educazione, aveva girato il mondo in compagnia di una donna più 
anziana di lui, celebre a Nizza e a Parigi per la sua eleganza e per la 
disinvoltura con cui rovinava la gente. Da quei viaggi don Pio era 
tornato sfiaccolato, senza aver imparato null'altro che a vestirsi e a
spendere. Cresciuto senza nessun ideale, senza nessun attaccamento nè 
all'antica causa dei papi, nè alla nuova causa dell'Italia, tornava a Roma 
dal suo viaggio quando la più grande rivoluzione del nostro secolo si 
era già compiuta. Quel grande fatto, che aveva afflitto così 
profondamente tutti i partigiani del papato e che aveva fatto esultare 
tutti gli italiani, lo aveva lasciato indifferente. Sua madre, rimasta 
fedele alle antiche idee, sua madre lo aveva inutilmente spinto a 
schierarsi fra i sostenitori del Vaticano, fra quelli cui lo legavano 
vincoli di parentela e di consuetudini di famiglia; egli sorrideva, si 
metteva il monocolo all'occhio sinistro e non rispondeva. Del resto la 
duchessa Teresa Urbani si limitava a esortare il figlio, e si sarebbe 
guardata bene dall'imporgli la sua volontà. Giunta a quarant'anni senza 
avere eredi, ella provava per questo figlio, tanto invocato e tanto 
vivamente bramato, una di quelle passioni cieche che le donne sentono 
per quelle creature che le hanno salvate dal marchio della sterilità, 
passione più forte di ogni altra della loro esistenza. Agli occhi di donna 
Teresa nessuno era più bello, più intelligente e più spiritoso del suo Pio, 
benchè egli non avesse nè una bella figura signorile, nè una bella 
intelligenza, e di spirito ne possedesse quel tanto necessario a fare 
buona figura in un salotto. La vera qualità del principe della Marsiliana 
era piuttosto la scaltrezza, che egli sapeva nascondere sotto un aspetto 
di grande bonarietà. Egli aveva inoltre una specie di fiuto che lo poneva 
sulla traccia delle    
    
		
	
	
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