Le Amanti | Page 2

Matilde Serao
dall'alta ombra della via, si perdeva lentamente,
lontana, nella bassa ombra della via. Ella guardava questo spettacolo di

oscurità e di pace, con gli occhi intenti, sentendo il freddo esteriore
penetrare dalla fronte, dalle guancie, dalle labbra che quasi baciavano il
cristallo: la sua febbre si calmava; le vene battenti si chetavano; il petto,
oppresso, respirava più liberamente; macchinalmente ella si staccava
dai cristalli, richiudeva le imposte, lasciava ricadere le molli,
strascicanti tende di broccato, faceva un paio di giri nella sua stanza,
guardando talvolta nell'alta e stretta specchiera la sua figura bianca e i
suoi occhi che bruciavano sempre. Come tutti quelli che soffrono
d'insonnia, per una forte causa morbosa o per una forte causa morale,
ricoricandosi, ella sentiva come un grande refrigerio, dolcissimamente
parea che si dovesse addormentare nel ricordo, nella speranza del suo
amore. La passione consumatrice nell'ora che fuggiva, si faceva tutta
tenerezza letificante, diventava un fresco soffio che le alitava sulla
fronte, sugli occhi, sulle labbra, sulle mani, come a vincerne il bruciore,
ed ella si assopiva, nuovamente, con le labbra che si muovevano a una
benedizione. Ma, ad un tratto, un incubo mostruoso, senza nome,
qualche cosa come un'orribile paura, la scuoteva, la faceva balzare sul
letto, come cercando soccorso, non sapendo, non conoscendo, non
pensando più nulla, vinta da uno spavento folle. Era allora che, levatasi,
nella penombra, in preda a un delirante bisogno di soccorso, ella
andava a buttarsi innanzi alla sacra immagine, prostrandosi sul gradino
dell'inginocchiatoio, abbassando il capo sul duro legno di quercia,
dicendo rapidamente le preghiere, per non pensare, per non sentire,
pregando, pregando, pregando, con un fervore di anima disperata,
restando lì, attaccata a quel legno, come se fosse quello della sua
salvazione. Ma sia che l'alba la sorprendesse dietro i cristalli del suo
balcone, o distesa sul letto con gli occhi spalancati, o sonnecchiante
malamente, o immersa in preghiere con le labbra frementi sui grani di
legno del suo rosario, certo che, a quell'ora gelida, la sua febbre era
domata, era caduta: ella tremava di freddo, pallida, con le labbra
violacee, con la bocca amara, con le ossa rotte, quasi uscisse dal
terribile abbraccio della terzana; il viso le si era allungato e come
pietrificato in un'espressione di sofferenza; i capelli le ricadevano sul
collo, disciolti, prendendo certi profili tragici, che solo le chiome delle
donne appassionate hanno. Invano cercava di riscaldarsi, buttando sul
letto una pelliccia, facendo un gran fuoco nel caminetto, accendendo
tutti i lumi della sua stanza: fra quel grande calore esteriore ella batteva

i denti, si addormentava rabbrividendo, rabbrividendo, livida, con la
fiamma del caminetto che crepitava, con le candele la cui fiammella
strideva nel calore, col sole mattinale che entrava, scintillando, fra i
velluti, i broccati e le pelliccie, non giungendo a riscaldare quel gelido
corpo di donna dormiente, dalle palpebre scure e fredde come il granito,
dalle labbra assottigliate e tremanti ancora di freddo. Come la mattinata
scorreva, entrava la cameriera, trovando le candele che si consumavano,
le legna arse che si coprivano di cenere, il sole che invadeva tutta la
stanza gaiamente, e quel cadavere dormiente, che riaprendo gli occhi,
rabbrividiva ancora, come se ritornasse dal gelo di un sepolcro. Ogni
mattina, sopra un piatto di argento, la cameriera porgeva una lettera.
Ma già la maschera umana aveva velato la sembianza della povera
febbricitante: ed ella stendeva la mano, con indifferenza, a prendere
quella lettera, aspettava che la cameriera avesse spento i lumi, riacceso
il caminetto, spalancato le imposte al sole, aspettava, intorpidita e
immobile.
--Si sente male?--diceva la cameriera, guardando il volto bruno e
smorto della sua padrona che ella amava.
--No: ho freddo--mormorava la padrona, stringendo la lettera d'amore
nella mano sottile e agghiacciata, senza neppure guardarne la busta,
come se fosse inutile aprirla.
La fanciulla devota le riassettava le molli coltri scomposte dall'insonnia,
le rialzava i cuscini disordinati su cui era abbandonata la foltezza dei
capelli neri, la interrogava con una umile occhiata: ma vista la padrona
tutta perduta in un pensiero, usciva discretamente dalla stanza,
chiudendone la porta, aspettando di esser chiamata per ritornare. Allora
soltanto, con un atto breve, quasi convulso, la smorta signora faceva
saltar via la busta lacerata e leggeva la lettera tutta bruciante di
passione che il suo amore le scriveva.
Lettera incoerente e puerile, balbettìo talvolta bizzarro, talvolta
monotono di frasi stravaganti che si ripetevano, si accavallavano, si
confondevano, si affannavano sulla carta, come nell'anima malata di
chi le scriveva. Eppure egli non era nè un fanciullo, nè un pazzo, nè un
infermo; era un uomo di trent'anni, vigoroso, completo nella sua

manifestazione morale, che aveva saputo vivere, amare, soffrire. Era un
forte lottatore che le aveva coraggiosamente combattute le sue battaglie,
talvolta vinto, spesso vincitore, mai domato: era un sagace conoscitore
di sè stesso, delle cose e degli uomini, capace di grande scetticismo
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