usanza di chiedere il passaporto ai forestieri che si 
presentano alle porte; più strano ancora che questa formalità vessatoria 
ed odiosa non venga almeno risparmiata alle persone del mio sesso.
--La società umana, rispose il commissario sorridendo, non rappresenta 
che un intreccio di stranezze. 
Il visconte cacciò una mano nel taschino della gonnella, e trattone il 
portafoglio, presentò al commissario una carta di visita. 
--Se questa può bastare... 
--Vediamo! 
Poi, con un risolino di soddisfazione, il commissario soggiunse: 
--Non serve che la signora contessa ci fornisca altra prova della sua 
identità... Questa carta ci basta... Si compiaccia dunque di scendere da 
cavallo e di seguirci. 
--Scendere da cavallo! seguirvi! Che vuol dir ciò? domandò il visconte 
sorpreso, 
--Vuol dire, rispose il commissario pacatamente, che noi abbiamo 
ordine di mettere la illustrissima signora contessa di Karolystria in 
istato di arresto... E poiché voi, gentilissima signora, siete appunto la 
contessa Anna Maria di Karolystria, e i tratti del vostro viso, nonché la 
foggia e il colore del vostro abbigliamento rispondono perfettamente ai 
connotati che ci vennero trasmessi, così speriamo che di buon grado 
vorrete ottemperare alle nostre ingiunzioni, piuttosto che costringerci 
ad impiegare quei mezzi coercitivi... 
--Parlate voi da senno! esclamò il visconte irritato; ch'io sappia almeno 
da qual parte è venuto l'ordine di arrestarmi. 
--L'ordine è partito, rispose il commissario sorridendo, da una persona, 
che essendo legata a voi con nodi indissolubili, ci tiene molto al 
possedimento delle vostre grazie. Venite, signora! Vostro marito vi 
reclama, vostro marito non può vivere senza di voi. Ciò deve lusingare 
grandemente il vostro amor proprio di donna e compensarvi della 
lievissima pena che noi siamo obbligati ad infliggervi.
Il visconte riflette un istante: 
--Questo equivoco, pensò egli, può tornar giovevole alla contessa; le 
darà il tempo di allontanarsi da Borgoflores e sfuggire alle vessazioni 
di un marito che la perseguita. 
Egli scese da cavallo. 
--Commissario, sono con voi! esclamò con piglio dignitoso; voglio 
sperare che l'ordine di cattura non si stenda a questa mia buona puledra, 
che ha camminato tutto il giorno, ed ha bisogno urgentissimo di fieno e 
di riposo. Vorreste voi, signor commissario gentilissimo, affidarla a 
qualcuno che si incaricasse di condurla all'albergo della Maga rossa? 
Il commissario assentì. 
Mentre un gaglioffo di doganiere afferrava il morso della puledra, il 
visconte gli si accostò con un pretesto, e facendogli scivolare nella 
mano una carta di visita, gli disse sottovoce rapidamente: 
--Eccoti l'indirizzo di una dama... Silenzio!... discrezione! fra un mese 
sarai ispettore... fra un anno prefetto. 
Il doganiere partì sbalordito, e il visconte, condotto dal commissario 
alla caserma delle guardie di pubblica sicurezza, venne rinchiuso in una 
cameraccia disadorna, a mala pena rischiarata dal fumo di un lucignolo 
moribondo. 
 
CAPITOLO III. 
Non era scritto nei fatti che il nostro gentiluomo in gonnella, dovesse 
passare la intiera notte in quell'antro di lupi polizieschi. 
Infatti, trascorsi pochi minuti, i catenacci cigolarono, e il commissario 
ricomparendo sulla soglia annunzio con lugubre voce al detenuto la 
visita del conte Bradamano di Karolystria, elettore dell'impero e 
arcidecano del grand'ordine della Cervia Massonica.
--Il marito! pensò il visconte trasalendo; s'egli si avvede dell'equivoco, 
la contessa è perduta... Procuriamo di ritardare la catastrofe... 
E mentre il conte Bradamano di Karolystria si avanzava con passo da 
tiranno, stampando sul suolo delle orme che spaccavano i mattoni, il 
nostro cavalleresco eroe cadeva in ginocchio a ridosso d'una seggiola 
appoggiata alla muraglia, e giungendo le mani in atto dì pregare, 
seppelliva in quelle le sue guancie rubiconde e paffute. 
Il conte Bradamano pregò il commissario di ritirarsi, e facendosi più 
innanzi, investì il genuflesso con una occhiata fulminea. I suoi speroni 
mandavano un sinistro cigolìo. 
La persona, che in atto di umile e desolata preghiera gli volgeva le 
spalle e le calcagne, non poteva che essere una donna colpevole. Il 
cappellino bizzarro a piume azzurre, la magnifica veste da amazzone 
stabilivano l'identità di quella dama. Quel cappellino il conte l'aveva 
donato a sua moglie nell'anniversario del malassortito imeneo. 
L'elegante ciarpa di raso, ricamata in oro, che il visconte teneva 
annodata al collo, ricordava al terribile marito un altro regalo da lui 
fatto all'indegna, in un lucido intervallo di tenerezza coniugale... Quella 
ciarpa gli era costata cinquecento rubli... Cappellino, amazzone, ciarpa, 
tutto concorreva a denunciare la perfida moglie... La contessa era là... 
L'occhio grifagno, l'artiglio adunco del marito le stavano sopra. 
--Sciagurata! tu preghi? esordì il conte con voce sepolcrale... 
Il visconte, compreso dalla stranezza quasi inverosimile della propria 
situazione, sprofondando la testa nelle mani, diede in uno scroscio di 
risa che sembrava una scarica di singhiozzi. 
--E tu piangi! proseguì l'altro, ingrossando la voce... 
La seggiola sulla quale il visconte era appoggiato, scricchiolava sotto 
gli scoppi delle sue risa irrefrenabili. 
--Per chi preghi? Per chi piangi?... Ma alzati, dunque! Questi mattoni 
screpolati ti sciupano la gonnella... Dio! uno strappo!... due strappi!...
Quante ammaccature sul cappello!...    
    
		
	
	
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