sognare su quella 
poltrona. Non so come cominciare e invoco l'assistenza delle sigarette tutte tanto 
somiglianti a quella che ho in mano. 
Oggi scopro subito qualche cosa che piú non ricordavo. Le prime sigarette ch'io fumai 
non esistono piú in commercio. Intorno al '70 se ne avevano in Austria di quelle che 
venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell'aquila bicipite. Ecco: 
attorno a una di quelle scatole s'aggruppano subito varie persone con qualche loro tratto, 
sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però a commovermi per l'impensato 
incontro. Tento di ottenere di piú e vado alla poltrona: le persone sbiadiscono e al loro 
posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo. 
Una delle figure, dalla voce un po' roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa mia età, 
e l'altra, mio fratello, di un anno di me piú giovine e morto tanti anni or sono. Pare che 
Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di quelle sigarette. Ma sono 
certo che ne offriva di piú a mio fratello che a me. Donde la necessità in cui mi trovai di 
procurarmene da me delle altre. Cosí avvenne che rubai. D'estate mio padre abbandonava 
su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui taschino si trovavano sempre degli 
spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e 
fumavo una dopo l'altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il 
compromettente frutto del furto. 
Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non 
sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l'origine della sozza 
abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un'ultima 
sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato. 
Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una 
sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto 
non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che m'era venuta la curiosità di 
contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e 
non s'avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciotto. A mio onore posso dire che 
bastò quel riso rivolto alla mia innocenza quand'essa non esisteva piú, per impedirmi per 
sempre di rubare. Cioè... rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa 
dei sigari virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo 
modo di gettarli via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca, Catina, li 
buttasse via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all'atto d'impadronirmene venivo pervaso 
da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m'avrebbero procurato. Poi li fumavo 
finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco si contorcesse. 
Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia. 
So perfettamente come mio padre mi guarí anche di quest'abitudine. Un giorno d'estate 
ero ritornato a casa da un'escursione scolastica, stanco e bagnato di sudore. Mia madre 
m'aveva aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in un accappatoio, m'aveva messo a dormire su 
un sofà sul quale essa stessa sedette occupata a certo lavoro di cucito. Ero prossimo al 
sonno, ma avevo gli occhi tuttavia pieni di sole e tardavo a perdere i sensi. La dolcezza
che in quell'età s'accompagna al riposo dopo una grande stanchezza, m'è evidente come 
un'immagine a sé, tanto evidente come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che 
piú non esiste. 
Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava e che ora, in questi tempi 
avari di spazio, è divisa in due parti. In quella scena mio fratello non appare, ciò che mi 
sorprende perché penso ch'egli pur deve aver preso parte a quell'escursione e avrebbe 
dovuto poi partecipare al riposo. Che abbia dormito anche lui all'altro capo del grande 
sofà? Io guardo quel posto, ma mi sembra vuoto. Non vedo che me, la dolcezza del 
riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui sento echeggiare le parole. Egli era entrato e 
non m'aveva subito visto perché ad alta voce chiamò: 
- Maria! 
La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale accennò a me, ch'essa 
credeva immerso nel sonno su cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi piaceva tanto 
che il babbo dovesse imporsi un riguardo per me, che non mi mossi. 
Mio padre con voce bassa si lamentò: 
- Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz'ora fa su 
quell'armadio un mezzo sigaro ed ora non lo trovo piú. Sto peggio del solito. Le cose mi 
sfuggono. 
Pure a voce bassa, ma che tradiva un'ilarità trattenuta solo dalla paura di destarmi, mia 
madre    
    
		
	
	
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