romanzo! sclamò la marchesa dando un passo indietro. 
--Un romanzo! disse il segretario facendo il viso serio. 
--Un romanzo! gridò il conte facendo un par di occhioni dalla sorpresa. 
--Sì, miei signori, qual maraviglia? proseguì placidamente l'autore. 
Forse perchè mi avete sentito batter sodo sulla filosofia, vi fa specie di 
sapermi autore d'un romanzo? Non si può forse, scrivendone, dilettare 
ammaestrando? E non crediate (e qui lo scrittore prese un po' di fuoco e 
se gli accesero le guance) e non crediate che tutto quello che chiamasi 
romanzo sia un impasto di fole, di storie bizzarre. Ditemi un poco: 
quante volte la favola non ha ella insegnato delle apprezzabili verità? 
--Voi ci avete posto nella massima curiosità, prese a dir la marchesa; 
favoriteci il titolo. 
--I misteri di Livorno o i Demagoghi. 
--Il titolo non mi dispiace, continuò la dama. Ma, quanto all'opera, la 
credete voi buona? 
--Non sta a me a dirlo. 
--La credete bella? 
--Nessuno loda le proprie opere. 
--La credete poi utile al popolo?-- 
Il treno che arrivò in quel momento non gli permise di replicare, ed
entrò in vagone insieme agli altri. 
 
CAPITOLO PRIMO 
Il Caprone. 
--Non è possibile. 
--Ma quando te lo dico io, ci puoi credere, caro Marco. Orsù, prendi il 
tuo fucile in ispalla e buona guardia.-- 
Questo breve dialogo aveva luogo la sera del 15 febbraio dell'anno 
1821, alle ore undici, fra due soldati di linea che si cambiavano di 
fazione sulla piattaforma della fortezza vecchia in Livorno. 
Questa fortezza dà, colle sue mura costrutte nel secolo decimosesto, sul 
mare dalla parte di ponente. Quelle mura, corrose dal tempo e dai venti 
marini, presentavano all'epoca di questo racconto alcune fessure del 
diametro di un sesto di braccio; ed essendo formate a scarpa, non 
sarebbe stato difficile lo scalarle, quando non custodite da vigili scolte. 
A destra del posto ove passeggiava la sentinella si vedeva, alta dal 
livello del mare poco più di due braccia, un'opera di fortificazione che, 
mezzo diruta, tuffava i suoi fondamenti nell'acqua marina dalla parte di 
ponente e nel fosso della così detta Venezia nuova, canale che serve di 
veicolo alla introduzione delle merci in quel quartiere della città. Il 
bisogno di provvedere alle esigenze sanitarie e d'impedire più 
specialmente il contrabbando del tabacco faceva sì che nella consegna 
del posto armato di sopra menzionato vi fosse l'obbligo di sorvegliare 
sul bastione sottoposto e particolarmente sull'opera semidiruta, la quale, 
separando con semplice e basso muro il mare dal fosso dello scalo di 
Santa Trinità, rendeva assai facile l'introdursi di contrabbando nella 
città stessa. 
Livorno all'epoca da noi accennata non aveva risentito nulla dì quello 
sviluppo che sì maravigliosamente nel suo materiale ha conseguito di 
poi. Essa serbava ancora le sue medicee mura, di là delle quali erano 
vasti e popolosi sobborghi. Le sue strade anguste e tortuose (tranne due
o tre principali), il lurido casone, l'annesso quartiere degli Ebrei col suo 
nome di ghetto, sporco nelle vie, nei muri, nelle case, nell'interno di 
esse, buio anzichè no, abitato da ciurmaglia povera e schifosa. Aveva il 
quartiere detto la Venezia nuova, ove vegeta piuttostochè vivere una 
popolazione diremmo quasi staccata dal rimanente pei suoi gusti, per le 
sue costumanze, per i suoi vizi, per l'accento non toscano; popolazione 
la quale, come vediamo, pel suo continuo contatto con la gente di mare 
si è improntata di un carattere tutto speciale e bizzarro; popolazione 
infine ignorantissima, di cuor fiero, di volontà decisa, di un coraggio e 
di un'audacia senza pari, facile per altro alla credulità ed a cedere a 
qualsivoglia cosa che abbia dello straordinario e del portentoso. 
Livorno adunque nel 1821 non poteva differire gran che da quella di un 
secolo addietro. Chi cercasse peraltro di ritrarne un'idea dalla ispezione 
che fosse per farne attualmente, invano spenderebbe il suo tempo. 
Cotesta marittima città ha fatto come la crisalide: essa è uscita dal suo 
lurido involucro per mostrarsi di straordinaria beltà, la quale però non 
permette di riconoscerla dall'epoca della sua metamorfosi. 
Ma, del paro che colle fabbriche, ha ella cangiato nel suo morale, nei 
suoi costumi? Io sento che sì; fuorchè rispetto agli abitatori della 
Venezia. Il cangiamento sarà poi stato giovevole al suo commercio, alla 
sua industria, al suo bene essere, in una parola? Questo potrà dirlo altri; 
io per me scrivo un romanzo e mi astengo dal pronunziare. L'esito lo 
mostrerà. 
Il militare che abbiamo sentito nominare per Marco era un giovane di 
bassa statura, piuttosto pingue, la cui fisionomia, ilare per abitudine, lo 
dichiarava per uno dei buoni villici delle nostre colline. Marco, in forza 
della sorte cruda che gli aveva fatto estrarre il numero sei dall'urna dei 
coscritti, aveva dovuto lasciare da un anno il poderetto della Sambuca, 
le care veglie dell'inverno, nelle quali, seduto su d'una ruvida panca 
accanto al domestico focolare, si occupava colle mani a    
    
		
	
	
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