un altro ufficiale giudiziario, il quale
anzi raccomandò di dire al collega malato che quella tal citazione 
verrebbe fatta prima del mezzodì. 
E Giusto via, a picchiare alla porta del suo terzo cugino. 
Gli fu aperto dalla figliuola di Ippolito, una cuginettina perduta di vista 
da molti anni, un amore di bimba non avente proprio l'aria di essere 
tanto vicina alla curia e al tribunale; ne pareva anzi lontanissima, tanto 
era bianca, bionda, e gentile; e pure anche il giorno prima 
quell'amorino ingenuo aveva riempito molta carta bollata indegna di un 
suo caratterino nitido e bello, senza domandarsi conto di quanto faceva 
per contentare il babbo. 
--Chi è? domandò appena ebbe schiuso l'uscio, e subito soggiunse: è lo 
zio Giusto. 
--Non sono tuo zio, ma tuo cugino, tienlo in mente... 
--Il babbo dice che sei zio, ma se tu vuoi essere mio cugino, lo 
preferisco quasi; vieni pure, ma il babbo sta male, perchè ieri ha 
lavorato troppo... 
--L'altro usciere mi ha detto che ieri ha mangiato.... e gli ha fatto male. 
--Non è vero; lavora qualche volta troppo e allora non digerisce quel 
che mangia. Vado subito a dirgli che sei qui, aspetta un momentino... 
Così dicendo, quella donnina accompagnava il suo parente in salotto, 
gli accennava di mettersi a sedere, e via di corsa. 
Uscirono dal cervello del maestro tutti le amarezze della giornata 
incominciata per trattenere soltanto la visione gentile della cuginetta. 
Un pittore che sappia il fatto suo, al primo vedere una figurina come la 
figliuola dell'usciere Ippolito, si sente subito afferrare dalla tentazione 
di arrestarne sulla tela il più possibile, il viso almeno, un po' di collo, le 
manine bianche, le braccia tonde; il resto viene poi. 
Così Giusto.
«Come si chiama mia cugina? Maria, mi mi pare; ma non ne sono 
sicuro, e non mi starebbe bene domandarlo; altrimenti si vedrebbe 
subito che io dei parenti cari mi sono infischiato magnificamente fino 
al momento di averne bisogno. È fresca come una rosa appena 
sbocciata; beato chi la potrà cogliere; è bella; è amabile, disinvolta e 
garbata; farà la felicità di un usciere novellino, o chi sa mai, magari di 
un usciere vecchio, che abbia ammucchiato molto denaro notificando 
molta carta bollata. Ah! quanti grandi artisti sono diventati celebri 
perchè avevano un modello in casa!» 
Giusto ebbe l'audacia di immaginare l'arte gentile che egli avrebbe fatto 
nel primo tempo dopo le nozze, quando la cugina Maria.... diciamo.... 
fosse al suo fianco, e l'arte grande che gli sarebbe uscita dal pennello 
quando Maria, diciamo ancora così, avesse preso proporzioni un tantino 
matronali, ma un tantino appena, e il suo viso di faterella allegra fosse 
oscurato da quell'ombruzza di melanconia di chi ha visto da lontano il 
dolore. 
La cuginetta tornò in quel punto ad annunziare che il babbo dormiva 
ancora, ma nel dire mostrò apertamente il dolore della bugia; tanto 
apertamente, che Giusto fu lì lì per consolarla così: 
«Maria.... ho inteso tutto....» ma dalla camera vicina la voce sonora, che 
spesso tonava nell'aula annunziando il tribunale, gridò forte: Cristina! 
E Cristina, chiesta permissione, sparve una altra volta. 
--Si chiama Cristina, e io me ne ero scordato; è proprio bella tanto, 
ingenua e schietta; non pare la figlia di un usciere; mio cugino Ippolito 
ha fiutato il caso mio; per paura d'essere indebolito dall'indigestione, mi 
mandava a spasso con una bugia; ma pensandovi ha visto di non 
guadagnare gran cosa, e ora mi fa dire di venire al suo letto, che, 
ammalato com'è, saprà difendersi. È come se lo vedessi. 
Cristina rientrò in sala in quel punto; aveva la faccetta allegra d'una 
donnina che, odiando la menzogna, si rallegra di dire una verità. 
--Il babbo dormiva, perchè non aveva inteso che si trattava di te; ora ti
vuol vedere. 
--Grazie, balbettò Giusto per dire qualche cosa. 
--Grazie di che? chiese Cristina. 
E veramente grazie di che? Giusto non sapendo rispondere, si avviò in 
uno stato di perplessità inesplicabile. Giunto a piedi del letto 
matrimoniale dell'usciere vedovo, non fu tolto al suo stato dagli omei 
con cui Ippolito cominciava la propria difesa personale. 
--Ahi! questo mio stomaco non mi serve più; ahi! è il piloro 
sicuramente, o è il fegato, o è la milza, o è il demonio; il fatto è che se 
mangio un boccone con un po' di appetito mi tocca dire mi pento e mi 
dolgo una settimana intera. 
--Che cosa è stato? 
--È stato che si lavora troppo per campare la vita. Ma bravo! Mio 
cugino, il grande artista, il faro dell'arte pittorica lombarda, si è 
ricordato d'un misero uffiziale giudiziario! Non è, Dio ti guardi, per una 
citazione? Se il cliente tuo non ti vuol pagare, dà retta a me, piglialo 
con le buone; non ti venga mai la tentazione di pigliarlo con le mani 
d'un usciere. L'usciere, anche se è cugino, non può far    
    
		
	
	
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