Il Principe della Marsiliana | Page 5

Emma Perodi
incominciarono le grasse risate echeggianti sulla terrazza attigua coperta dal pergolato, e dove si era riunita tutta la gente di minor conto, tutta la plebe.
Il principe parlava poco e ascoltava il sor Domenico e l'on. Serminelli, tutti e due pratici di elezioni, che gli davano dei consigli. Caruso non potendo stare accanto al principe si era messo alle costole a Fabio Rosati e sottovoce ripetevagli che se il principe sapeva svolgere l'idea suggeritagli da lui, era deputato del certo.
Don Pio, nella cui mente era infatti penetrato il suggerimento del Caruso, ascoltava con orecchio distratto i discorsi delle persone che aveva a fianco e teneva l'occhio intento sul Rosati e su quel tipo strano di uomo grasso e senza energia, che pareva avesse concentrata nell'occhio tutta l'attivit�� della mente, e avrebbe voluto, senza chiedergli nulla, avere da lui altri suggerimenti. Egli sentiva avvicinarsi il momento di parlare e la sola idea che sapeva di dover manifestare era infatti quella della stazione in Trastevere, ma era una idea isolata, che non sapeva su che basare, n�� come svolgere.
La sua non era una elezione preparata da lunga mano, come egli non era preparato alla vita politica. Lo scioglimento della Camera in seguito alla caduta del ministero, avvenuto in primavera, aveva rese necessarie in maggio le elezioni generali, e un gruppo di elettori, ascoltando il suggerimento del Rosati, si era fatto propugnatore del nome di don Pio Urbani, principe della Marsiliana, non perch�� fosse noto come uomo intelligente, n�� come buon amministratore, ma solo per contrapporlo a un ricco mercante di campagna, il de Petriis, che, per la impopolarit�� acquistatasi nel consiglio comunale, si voleva escluso dal Parlamento come rappresentante di un collegio di Roma.
Del resto, don Pio non aveva altri precedenti che questi. Figlio unico e erede di un grande nome e di un grande patrimonio rovinato, era rimasto orfano di padre nei primi anni dell'infanzia. Sua madre, merc�� l'aiuto di un buon amministratore, che si diceva fosse vice-principe di nome e di fatto, aveva estinto gran parte delle ipoteche e preparato al figlio, che faceva educare nel collegio dei gesuiti a Mondragone, un avvenire ricco e senza fastidi. Don Pio, appena uscito di collegio, aveva corso la cavallina, e col pretesto di viaggiare, per dar l'ultima mano alla sua educazione, aveva girato il mondo in compagnia di una donna pi�� anziana di lui, celebre a Nizza e a Parigi per la sua eleganza e per la disinvoltura con cui rovinava la gente. Da quei viaggi don Pio era tornato sfiaccolato, senza aver imparato null'altro che a vestirsi e a spendere. Cresciuto senza nessun ideale, senza nessun attaccamento n�� all'antica causa dei papi, n�� alla nuova causa dell'Italia, tornava a Roma dal suo viaggio quando la pi�� grande rivoluzione del nostro secolo si era gi�� compiuta. Quel grande fatto, che aveva afflitto cos�� profondamente tutti i partigiani del papato e che aveva fatto esultare tutti gli italiani, lo aveva lasciato indifferente. Sua madre, rimasta fedele alle antiche idee, sua madre lo aveva inutilmente spinto a schierarsi fra i sostenitori del Vaticano, fra quelli cui lo legavano vincoli di parentela e di consuetudini di famiglia; egli sorrideva, si metteva il monocolo all'occhio sinistro e non rispondeva. Del resto la duchessa Teresa Urbani si limitava a esortare il figlio, e si sarebbe guardata bene dall'imporgli la sua volont��. Giunta a quarant'anni senza avere eredi, ella provava per questo figlio, tanto invocato e tanto vivamente bramato, una di quelle passioni cieche che le donne sentono per quelle creature che le hanno salvate dal marchio della sterilit��, passione pi�� forte di ogni altra della loro esistenza. Agli occhi di donna Teresa nessuno era pi�� bello, pi�� intelligente e pi�� spiritoso del suo Pio, bench�� egli non avesse n�� una bella figura signorile, n�� una bella intelligenza, e di spirito ne possedesse quel tanto necessario a fare buona figura in un salotto. La vera qualit�� del principe della Marsiliana era piuttosto la scaltrezza, che egli sapeva nascondere sotto un aspetto di grande bonariet��. Egli aveva inoltre una specie di fiuto che lo poneva sulla traccia delle persone da sfruttare, e che ora gli faceva indovinare nel Caruso l'uomo opportuno, l'uomo che avrebbe potuto cavarlo d'impaccio.
Si discuteva a Roma da molto tempo il nuovo piano regolatore della citt��, e durante queste discussioni la capitale si trasformava a vista d'occhio, ponendo, come tanti ostacoli al nuovo piano, i lavori che gi�� erano compiuti.
La questione di trasportare altrove la stazione ferroviaria era all'ordine del giorno. Nelle adunanze della Societ�� degli architetti si era messa avanti l'idea di trasportarla ai Prati di Castello, fuori della porta San Giovanni, lasciando quella vecchia riserbata soltanto per la piccola velocit��.
Gi�� si erano fatti stud? e disegni, si erano pubblicati opuscoli per sostenere l'una o l'altra idea, ma il pensiero di fare la stazione nel Trastevere
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